Vi è mai capitato di fare ad un acquisto online e ritrovarvi nella schermata di riepilogo dei costi aggiuntivi inaspettati? Avete mai affrontato la compilazione di caselle di spunta – ad esempio, per autorizzare la registrazione ad una mailing list – contraddittorie o di non immediata comprensione? Bene. Questi sono classici esempi di Dark Pattern. Il lato oscuro della UX.
I Pattern non sono cattivi, è che li disegnano così…
Di per sé, “Pattern” non ha un’accezione negativa. La sua traduzione letterale è “disposizione”.
La disposizione di concetti, frasi e bottoni e la loro integrazione nella pagina, secondo regole ben definite in sede di definizione della UX.
Alcune di queste diposizioni si sono trasformate con il tempo in veri e propri modelli riconosciuti e applicati dal mercato.
Per questo motivo, la traduzione più usata per il termine “pattern” è Modello.
Le regole definite dal marketing vengono messe in pratica dai copywriter e dai designer, i quali si occupano della realizzazione concreta dei modelli.
Segue il loro inserimento nella User Interface (UI), ossia l’insieme visuale che va a comporre la piattaforma (il sito, la app) a cui si connetteranno gli utenti.
Guardiamo e usiamo patterns in continuazione. Ad esempio per iscriverci ad una mailing list o per autorizzare l’uso dei nostri dati personali oppure per accedere a servizi gratuiti o a pagamento.
L’uso dei patterns è necessario. Consentono agli utenti di muoversi in ambienti digitali seguendo dei percorsi familiari e già riconosciuti.
Il menù a tendina, il carosello d’immagini o la pressione lunga per evidenziare, sono tutti pattern di interazioni che semplificano l’esperienza utente.
Se da una parte, questi modelli d’interazione semplificano la vita degli utenti in modo da inserirli in un contesto familiare, dall’altra possono portarli a premere su un tasto o ad accettare qualunque cosa riesca ad essere nascosta in modelli d’interazione, all’apparenza, innocui.
Ecco perché, sempre più aziende e servizi online cercano di aumentare i loro livelli di conversioni e di monetizzazione all’insaputa dei loro utenti.
L’uso distorto dei pattern di interazione ha raggiunto una diffusione tale da aver allarmato anche brand e professionisti del digital, preoccupati anche per la loro reputazione.
Gli articoli sull’argomento sono molti e c’è chi ha deciso di reagire avviando una vera e propria campagna di informazione sui rischi dei modelli disonesti.
Harry Brignull, un consulente freelance londinese specializzato in user experience (che con i pattern ci lavora), nel 2010 ha aperto un osservatorio permanente sul fenomeno, con tanto di Hall Of Shame.
Una questione etica
Il punto, quindi, non è la loro applicazione ma come i pattern vengono utilizzati.
Gli addetti alla UI si trovano davanti ad un quesito etico: fino a che punto spingersi prima di cadere nella tentazione di passare dal lato oscuro (dark, appunto)? Facile monetizzazione a discapito degli utenti, o trasparenza e onestà prima di tutto?
Un pattern d’interazione ha il potere di orientarci ma anche quello di disorientarci.
Bersagli facili
Costellano i portali web e non sono facilmente riconoscibili. Si annidano nella costruzione delle sintassi, nella disposizione dei corpi di testo, nella dimensione dei caratteri.
I dark pattern giocano con la nostra capacità di concentrazione e di comprensione, rendendo farraginosi concetti e riducendone la leggibilità.
Davanti a questi pericoli risultiamo spesso indifesi, perché la maggior parte di noi applica ad internet gli stessi strumenti di analisi che utilizza per interpretare il mondo esterno.
Un errore.
Gli stessi sensi (tatto, vista, olfatto e udito) che ci hanno permesso di adattarci all’ambiente circostante, oggi, possono fare ben poco per l’orientamento nei paesaggi inesplorati del web.
L’essere umano, semplicemente, non si è ancora abbastanza evoluto per fronteggiare le insidie digitali.
La natura non ci ha dotato di strumenti sensoriali per difenderci da questi pericoli, se non il nostro buon senso.
Ecco perché possiamo definirci dei veri e propri analfabeti funzionali perché non abbiamo gli strumenti necessari di critica e analisi di ciò che fruiamo online.
In attesa che il linguaggio digitale diventi materia di studio nelle scuole dell’obbligo, proviamo a capirci comunque qualcosa.
Possiamo immaginare un dark pattern come un cavallo di Troia che nasconde in pancia trucchi elaborati con un solo obiettivo: il guadagno.
Dark Pattern: ci sono molti modi per fare una domanda
Prendiamo in esame un classico esempio di caselle di spunta per l’autorizzazione all’invio di materiale informativo e offerte speciali.
Queste tre versioni della stessa coppia di quesiti rappresentano diversi livelli di chiarezza di esposizione.
L’esempio numero 1 è il più chiaro e onesto perché il suo invito a ricevere notifiche evita che la loro attivazione sia automatica nel caso in cui i campi non vengano compilati dall’utente.
Il numero 2, invece, tende all’ambiguità.
L’invito a selezionare il campo è finalizzato alla disabilitazione delle notifiche.
Ciò vuol dire che, in caso lo user ignorasse il testo per mancanza di tempo o per superficialità, quelle notifiche, in teoria opzionali, saranno attivate automaticamente.
Inoltre, la doppia negazione del primo quesito, accompagnata dalla formulazione affermativa del secondo, può creare confusione nel caso di una lettura non attenta.
Il terzo esempio è, invece, abbastanza chiaro vincola l’attivazione delle e-mail promozionali all’assunzione di una decisione da parte dell’utente.
Le differenze sono sostanziali eppure si nascondono dietro sfumature di non facile individuazione anche per persone istruite.
Una concorrenza sleale
Le interazioni malevole che si celano dietro un dark pattern hanno un solo obiettivo: fregarci per ottenere guadagni (sui grandi numeri) maggiori. Nettamente maggiori rispetto a quelli che porta un’interfaccia onesta.
Ma non solo.
Come dicevamo poco sopra, i modelli sono necessari per ottenere il maggior numero di conversioni (il passaggio degli utenti da un livello gratuito del servizio a quello a pagamento).
Le performances delle conversioni vengono misurate con Test A/B. Più conversioni ci sono e più si alza il livello di efficienza e di remunerabilità del sito.
I dark patterns performano molto meglio di interazioni oneste e permettono di incrementare il numero di conversioni.

Per questo motivo, la tentazione degli amministratori e dei responsabili di siti web di ricorrere a qualche trucco è sempre presente ed aumenta con l’aumentare del business.
Chatbot e Dark Pattern, un’incompatibilità naturale
Le interfacce conversazionali, invece, hanno al loro interno anticorpi naturali contro i rischi provenienti da questo tipo di interazioni ingannevoli.
Il motivo è molto semplice e si trova nel mezzo stesso che il chatbot utilizza per ingaggiare l’utente: la conversazione.
Approcciarsi ad un bot via chat, vuol dire ingaggiare un dialogo. Un tipo d’esperienza lineare nella quale, per passare da un’interazione all’altra, da un messaggio a quello successivo, bisogna comprendere e dare una risposta coerente per ogni singolo scambio d’informazioni tra utente e servizio.
Ciò vuol dire che l’attenzione e la cura dell’utente nel corso della fruizione, ha un grado di accuratezza molto superiore rispetto alla consultazione di una classica app o sito web.
La cessione di dati personali – dalla persona alla macchina – e la finalizzazione di acquisti avvengono tra due soggetti che si confrontano dialetticamente. Quindi, tra pari.
Di conseguenza, l’eventuale imbroglio nascosto nella richiesta di autorizzazioni risulta molto più difficile da realizzare.
L’uso della conversazione come interfaccia può essere uno dei motivi che spinge molte persone, alle prese con acquisti importanti o con dati sensibili, a sentirsi più sicure nell’interagire con un essere umano piuttosto che con un’interfaccia digitale.